Durante questo mese fuori, siamo state chiamate Alexandra, Alex, Liscia, Lice, Elis, Alì, petit po’ e, ovviamente, amigas (soprattutto da chi voleva fregarci). Ma i nostri nomi veri sono e restano Alessandra Cappelletti e Alice Zecchinelli. Siamo sempre state noi due, dall’inizio alla fine.
Jules Verne, e noi.
Il protagonista de Il giro del mondo in 80 giorni è un ricco bocciofilo annoiato che da Londra va a Londra, passando per Brindisi, Bombay, Yokohama, San Francisco e così via. Con sé ha un maggiordomo che si chiama Passepartout (!), 20.000 sterline perché-non-si-sa-mai e la rosea prospettiva di metterne in tasca altre 20.000 in caso di vittoria. Per spaccare il secondo si avvarrà di tutto l’arsenale a disposizione: treni, navi, piroscafi, golette, slitte e dorsi di elefanti. Alla fine sposerà una vedova parsi e sarà ricco come prima. Ecco, c’è Jules Verne e poi ci siamo noi.
Trentadue giorni di viaggio per sette tappe: una media di quattro giorni per ciascuna (ma sono sempre stati due oppure cinque), contando il tempo per arrivare, trovare da dormire, da raccontare e, se proprio necessario, da mangiare. E in questo tempo piccolo piccolo, assolutamente registrare, montare, litigare (si litiga sempre, con un computer da dodici pollici davanti) e infine trovare un internet point per condividere tutto questo col mondo – impresa, quest’ultima, tanto più difficile quanto la temperatura è più calda, o il cibo più speziato, o le donne più belle, scegliete voi.
Richard è un cantante jazz che ha base a New York ma è di casa al Cafè Hafa, a Tangeri, dove William Burroughs ha scritto Il pasto nudo e Mick Jagger era solito sorseggiare tè alla menta. Forse. In realtà è assai probabile che la storia del jazz fosse solo una copertura per spillarci 120 dirham, ma in fondo cosa conta? Sentite che swing.
Hybris (ma siamo vive).
Di ROSADEIVENTI tutto è stato esagerato, a partire dall’intento impossibile – catturare l’incatturabile – fino all’organizzazione dei tempi e del budget, ai limiti dell’umano. È stata una follia, ma la parola giusta è solo greca: hybris, tracotanza pura. Se il Mediterraneo si sviluppasse in verticale, Zeus ci avrebbe fulminati all’altezza di Marsiglia. E invece ce l’abbiamo fatta, siamo qui a raccontarvelo.
Diciamolo subito: abbiamo perso la scommessa, e questo è anche, tra le altre cose, il racconto di una sconfitta. Eppure, proprio come Phileas Fogg sarebbe stato contento, con la sua sposa parsi e i beni al catasto, se fosse arrivato un giorno in ritardo, adesso anche noi possiamo dirlo, in un modo che finalmente ha la sostanza delle cose vissute: ciò che più conta del viaggio è viaggiare.
ll ricco è il povero.
Dei (pochi) soldi raccolti, tra finanziamento e crowdfunding, non abbiamo speso un solo centesimo che non fosse per spostarci. Così avevamo detto, e così è stato. Abbiamo viaggiato per mare e siamo state integraliste: a parte un piccolo strappo alla regola sulla via del ritorno, il nostro mezzo è sempre stato il traghetto, col suo tempo lento, i cornetti surgelati, i capitani svogliati. Un paio di fortunati autostop hanno coperto i brevi tragitti di terra, mentre a Bonifacio c’è mancato tanto così che strappassimo un passaggio in yatch. Per il resto siamo state molto accorte, ma soprattutto tanto, tantissimo fortunate: abbiamo trovato chi ci ha preparato il divano, offerto la colazione, il pranzo, la pizza sul tassì; qualcuno ci ha accompagnato al porto, qualcun altro ci ha comprato un biglietto dell’autobus. Un tizio corso ci ha messo in mano dieci euro e un pezzo di corallo grosso così. Per più di un mese abbiamo sperimentato la generosità come cambiale unica planetaria, ed è stato bello. Torniamo a casa miliardarie dentro.
Stare qui e ora.
Ovviamente non tutto è andato come previsto. O meglio: niente era stato previsto, e quindi tutto è successo. O è successo di tutto: dal battesimo sciagurato del registratore, deceduto senza ragioni apparenti dopo solo quattro giorni di vita, al terno al lotto del couchsurfing, tra case occupate a 50 dirham dal centro e situazioni un po’ ambigue con papponi in Costa Azzurra, senza tacere tutte quelle volte in cui abbiamo girato a vuoto alla ricerca di un posto silenzioso in cui registrare.
Abbiamo registrato sui marciapiedi, nei bar, nella tenda di un campeggio, chiuse a chiave dentro i bagni. Siamo state davvero punk. Ma settantadue ore in una città sono poche per scoprirla, pochissime per raccontarla. A un certo punto abbiamo dovuto scegliere: aggiornare il diario di bordo sonoro, oppure stare dentro al tempo del viaggio. Ci siamo arrese: abbiamo scelto il viaggio. Aggiornare il diario di bordo adesso, a viaggio concluso, è come leggere le mani a un morto: un atto paradossale, di quelli che piacciono a noi.
Ci sono un marocchino, un nigeriano, un afghano, un portoghese e forse, alla fine, un francese. Non è una barzelletta: è il popolo dei marsigliesi, un gomitolo di DNA che sfida qualsiasi pregiudizio. Marsiglia è la cosmopolis d’Europa e questo è il suono che fa una sera qualunque, nella piazza del Porto Vecchio.
Cosa ci portiamo a casa.
72 ore, tredici minuti e 8 secondi da sbobinare, innanzitutto. Dentro, ovviamente, tanti suoni: dalle pietre di Pinuccio Sciola al ventilatore della Zisa, dai cucchiaini del Cafè Hafa allo ruota panoramica del Vieux Port, e ancora i canali dell’Alcazaba, gli altoparlanti dei traghetti, l’autoradio dei taxi collettivi, la vita dentro le case, all’ora di pranzo, nei cortili della Vucciria. Soprattutto, però, le persone, le loro voci e le loro storie: Lucrezia Borgia, sposata con Mohammed e madre della regina Elisabetta; Angelo, guardiano del giardino sonoro; Virgilio, capitano e servo di uno yatch, arrabbiato coi ricchi e al loro servizio; Michael, cuoco di Gurdjieff e chitarrista senza pari; e poi il musulmano naturista, il milionario filantropo, il pescatore che si crede vittima di un sortilegio… Tutti questi incontri, diversissimi per il resto, hanno avuto un unico comune denominatore: il vento.
ROSADEIVENTI è un progetto sui venti del Mediterraneo, eppure il vento non è stato l’oggetto esclusivo, né principale, della nostra ricerca. Certo, abbiamo raccolto alcuni spunti interessanti – per dirne una: il Gharbi che spira per una settimana di fila, a Tangeri, con il manifesto intento di cacciare dalla città gli sposi sauditi e le loro volgari limousine. Ma il più delle volte parlare di vento è stato il pretesto per iniziare una conversazione che ha portato le persone a raccontarci la loro vita, il loro rapporto col tempo, con la malattia, con la solitudine. Qualcuno ci ha parlato di un amore portato dallo Scirocco, qualcun altro ha descritto la propria rabbia come un fortunale Forza 7. Abbiamo dormito in una casa piena di tavole da surf.
Rovesciare la rete.
Alla fine il vento è diventato un mezzo, un atteggiamento, uno stile di viaggio. Ha indicato la direzione ma non ci ha detto cosa cercare; ha dettato il ritmo dei racconti, senza parlare. È stato presente ininterrottamente, coi suoi vari nomi, per tutti e trentadue i giorni di viaggio. Ha incoraggiato le salite, fiaccato le corse, disturbato i microfoni. Lo consideriamo una specie di augurio.
Tutto quello che dobbiamo fare adesso è rovesciare la rete sul molo e liberare i pesci. Costruire una voce per ciascun vento e lasciare che racconti, con la forza che gli è propria, tutto quello che abbiamo sentito – e anche quello che non abbiamo sentito. Perché in questo ROSADEIVENTI non si è mai tradito: un oggetto ibrido tra poesia e reportage, una musica che inventa quello che non sa.